di Mariangela Compasso
Tunisi, 7 dicembre 1935, via Tourbet el-bey.
Siamo nella medina, in una dimora signorile, una di quelle con le porte in pregiato legno di albicocco, tipiche delle abitazioni borghesi. Nel lussuoso palazzo abita la famiglia en-Neifer, composta da Othman, il capofamiglia; Jnaina, sua moglie; Mohsen e Mhammed, i loro due figli maschi; Nezha, Mennana e Beyya, le loro tre figlie femmine; Zubaida, la moglie di Mohsen.
È mattina. La cameriera di famiglia Khadduj annuncia che Luiza, la cameriera personale di Zubaida, è desiderata alla porta dal garzone del fornaio. Luiza va alla porta e il garzone le consegna il pane, sollecitandola a far recapitare subito a Zubaida la lettera nascosta nel fagotto. Seppur stranita dalla situazione, la fedele Luiza si appresta a raggiungere la stanza della sua signora. All’improvviso, mentre attraversa il patio, viene fermata da Mhammed che, con il pretesto di volere un pezzo di pane, le fa varie domande dal tono intimidatorio e sospettoso. Nasce un alterco e, nonostante l’accortezza di Luiza, la lettera finisce nelle mani di Mhammed.
Da questo momento la giornata sarà caratterizzata da un susseguirsi di avvenimenti sciagurati che culmineranno nel dramma della notte.
Zubaida è accusata di avere una relazione clandestina. Il suo presunto amante è Taher al-Haddad, un intellettuale che fa parte del movimento politico indipendentista e si batte per i diritti delle donne.
Qual è il contenuto della lettera? Zubaida ha tradito Mohsen? Cosa è accaduto quella notte?
Nazilat dar al-akabir è un romanzo della scrittrice Amira Ghenim, pubblicato in Tunisia nel 2020. Finalista all’International Prize for Arabic Fiction, ha ricevuto il premio speciale della giuria del Comar d’Or, il più importante premio tunisino. In Italia è uscito nel 2023 per edizioni e/o (pp. 416) con il titolo La casa dei notabili, tradotto dall’arabista Barbara Teresi, che per la traduzione di questo romanzo è finalista al Premio Annibal Caro 2024.
La casa dei notabili narra la storia di due famiglie di alti funzionari, i notabili appunto: la famiglia en-Neifer, quella di Mohsen, conservatrice, e la famiglia ar-Rassa‘, quella di Zubaida, progressista. È un romanzo corale, composto da dieci capitoli in cui dieci personaggi raccontano, in luoghi diversi e in un tempo che copre un arco di settant’anni, il loro punto di vista sui fatti accaduti nella fredda e piovosa notte di dicembre del 1935. A chiudere il cerchio c’è l’undicesimo capitolo, quello di Hind, la nipote di Zubaida, che riprende il capitolo iniziale.
Undici microcosmi in cui ogni comparsa aggiunge indizi, infittisce la trama e svela segreti. A chi legge tocca mettere insieme i tasselli e capire, in un crescendo di suspense e rivelazioni, se Zubaida sia innocente o colpevole. Sullo sfondo c’è il macrocosmo in cui si sviluppa la storia politica e sociale della Tunisia, dal dominio francese (la Tunisia diventò Protettorato francese nel 1881 con il Trattato del Bardo) fino alla proclamazione della Repubblica nel 1957 con Habib Bourguiba presidente.
L’autrice intreccia storia personale e storia nazionale in un labirintico gioco di specchi, in cui ogni personaggio è l’espressione della propria visione della società. Così il padre di Mohsen viene fuori come un uomo radicato nella cultura sessista: «Non c’è niente in questo mondo che danneggi le donne tanto quanto imitare gli uomini. Una donna perde la metà della sua femminilità quando, invece di forbici e aghi, si mette una penna tra le dita e sulle ginocchia tiene un libro al posto del telaio da ricamo o di un gomitolo di lana». Lo dice in riferimento a Zubaida, istruita e libera, e per questo infedele.
La situazione politica descritta da Ghenim è quella dei vivaci anni Trenta, in cui prende forza il Partito liberale costituzionale (Destour) che caldeggia l’indipendenza dalla Francia. Sono gli anni della nascita dei sindacati per i diritti dei lavoratori e dei movimenti per l’emancipazione femminile. E in questo romanzo a essere vincenti sono proprio le donne. Khadduj, quando resta incinta di un uomo che si rivela un millantatore, decide di abortire. Decide per sé, del suo corpo, in una società in cui il corpo della donna è proprietà dei maschi. L’aborto sarà legalizzato solo molti anni dopo. Anche Beshira, la madre di Zubaida, è una donna “tosta”. Quando Luiza si fionda a casa ar-Rassa‘ per informare dell’accaduto, Beshira scatta come una furia verso casa en-Neifer intenta a difendere la figlia, senza curarsi delle raccomandazioni del marito, «perché niente al mondo può frapporsi tra una madre e la figlia, se su questa incombe un pericolo».
Mhammed è un uomo egoista, malvagio, rancoroso. Ce lo introduce Luiza: «È nato con una gamba un po’ più lunga dell’altra e per questo, crescendo, doveva aver sperimentato un senso di inadeguatezza a cui reagiva con cattiveria e introversione». Di lui scopriremo qualche scheletro nell’armadio nel corso della lettura.
Mohsen appare calmo e comprensibile, ma nel lungo capitolo in cui è lui a raccontare conosceremo il suo lato oscuro. Un uomo bugiardo e ingannevole. Nonostante questo, però, non si riesce a respingerlo totalmente. Credo sia il personaggio più complesso, proprio per le sfumature del carattere e la contraddittorietà delle azioni che lo contraddistinguono. Sappiamo molte cose di lui, ma rimane impenetrabile.
Zubaida è la grande assente. È in ogni pagina, anche se non c’è il capitolo in cui si discolpa e fornisce la propria versione.
La casa dei notabili è un romanzo sul patriarcato e il titolo simboleggia ogni luogo, ogni “casa” in cui si manifesta l’autorità. Ma è anche un romanzo sul potere del linguaggio, sulla sua capacità di irretire e manipolare. Manca la voce di Zubaida perché non è la (sua) verità che ci interessa, ma come questa possa essere modellata dalle parole. Zubaida è l’esempio di come si possa apparire vittima o carnefice attraverso l’uso sofistico del discorso. Parole che accusano e assolvono, che ammaliano e dissuadono. Zubaida alla stregua di Elena, colpevole di aver tradito Menelao con Paride e aver scatenato la guerra di Troia. Gorgia la riscatta nell’Encomio, dimostrando che Elena non ha alcuna colpa, massacrarla o redimerla è potere del logos, che possiede la «capacità di plasmare l’anima producendo in essa piacere e dolore». Il logos che convince, inganna, consola.
Zubaida è un personaggio contorto. Anche di lei è Luiza a offrire il ritratto che meglio la caratterizza: «Disdegnava altezzosamente le visite ai mausolei dei santi e brandiva i suoi libri francesi sventolandoli in faccia a chi glieli proponeva. “Sono questi, i miei santi patroni”, diceva. “Patrono è chi lascia alla gente conoscenze utili, e non superstizioni o dicerie”».
Frequenta la scuola francese e Taher è il suo precettore di lingua e cultura araba. I due condividono la passione per la lettura e il teatro. Nonostante goda di una certa indipendenza, sposa Mohsen, l’uomo scelto per lei dal padre. E quando Mohsen la punirà, lei non andrà via da casa en-Neifer. Attenzione, perché Zubaida non subisce passivamente le decisioni degli uomini, come potrebbe sembrare. Agisce con consapevolezza e determinazione, anche nelle azioni che sembrano meno romantiche. Potrebbe risultare respingente per certi versi, ma indagare la sua psiche nell’ottica di una visione neo-femminista sarà un’esperienza di lettura stimolante.
Taher è l’unico personaggio realmente esistito. È considerato il primo femminista della storia tunisina. Alla sua opera La nostra donna nella sharia e nella società, pubblicata nel 1930, nella quale sostiene la partecipazione delle donne alla vita politica, il riconoscimento dell’eredità, l’introduzione del divorzio e la legalizzazione dell’aborto, si ispirerà Bourguiba per la promulgazione del Codice dello statuto personale.
Taher al-Haddad nasce a Tunisi nel 1898. Entra nel movimento di liberazione contro il Protettorato francese e aderisce al partito socialista Destour, che poi abbandona perché lontano dal popolo. Insieme all’amico Mohamed Ali al-Hammi fonda nel 1924 il primo sindacato autonomo della Tunisia, la Confederazione generale dei lavoratori tunisini. Secondo Taher il patriarcato non appartiene all’essenza dell’islam, che riconosce dignità alle donne. Non vi può essere l’evoluzione sociale senza l’emancipazione femminile. Per le sue idee a favore dei diritti delle donne e per aver messo in discussione l’islam viene allontanato dall’università al-Zaytuna, un altro centro di potere, un’altra casa dei notabili. Licenziato dal lavoro presso la pubblica amministrazione e radiato dall’albo dei notai, muore il 7 dicembre 1935 all’età di 37 anni a causa di problemi di salute. «Capiranno che è stato un pioniere del pensiero illuminato quando i tempi non erano ancora maturi, e per tale ragione il popolo ignorante lo ha dato alle fiamme».
Taher non è solo l’intellettuale che si oppone al bigottismo religioso sfidando il potere dei notabili, è anche l’uomo che soffre perché non può stare con la donna che ama. In una delle pagine più intense del romanzo Ghenim riesce a rendere, con una forza immaginifica dirompente, tutta la disperazione di Taher nella solitudine della propria casa, dopo aver incontrato Zubaida con Mohsen all’uscita da un teatro: «Allora lui si è avvicinato al grammofono, lo ha preso e lo ha sbattuto più volte a terra fino a distruggerlo, poi ha cominciato a spaccare i vinili a metà, o in tre o quattro pezzi, e a lanciarli nel vuoto come dischi volanti, in modo che planassero un po’ per aria prima di cadere sulle teste dei passanti in strada, come fosse, nel buio della nostra, una lapidazione del cielo». Il dolore di Taher per aver perduto la donna amata ricorda quello di Orlando, nel canto XXIII dell’Orlando furioso, quando impazzisce al pensiero di Angelica insieme a Medoro:
«Fu allora per uscir del sentimento,
sì tutto in preda del dolor si lassa.
Credete a chi n’ha fatto esperimento,
che questo è ’l duol che tutti gli altri passa.
Caduto gli era sopra il petto il mento,
la fronte priva di baldanza e bassa;
né poté aver (che ’l duol l’occupò tanto)
alle querele voce, o umore al pianto».
Di ciò che è stato tra Zubaida e Taher sarà Hind a raccontarci nel capitolo finale, e il romanzo continuerà oltre le pagine.
Amira Ghenim è professoressa di Linguistica e Traduzione presso l’Università di Tunisi. In questo romanzo ci racconta una storia d’amore e di lotta nella Tunisia dei primi movimenti femministi e sindacali. Ma La casa dei notabili descrive anche un’altra Tunisia, quella fatta di sapori, profumi e melodie. Mentre camminiamo tra le viuzze della medina assaporiamo la cannella dei lokum e le mandorle dei frechk (i tunisini vanno pazzi per i dolci) o ascoltiamo le note di Umm Kulthum. Le meravigliose descrizioni di Ghenim e la bravura di Barbara Teresi ci immergono in un paese dai mille volti in cui si mescolano storia e folclore. Troviamo leggende che ci somigliano, come quella del jinn, «lo spirito che ti soffoca paralizzandoti mentre dormi» (non ricorda una bizzarra creatura partenopea?). I proverbi «Chi va con il fabbro e il carbonaio si ritrova con la pelle nera» e le similitudini testimoniano una saggezza popolare e un tempo lontano ancora presente. I riti scaramantici «… gli andava dietro infilandogli nelle tasche semi di cumino o di nigella contro l’invidia e il malocchio» scandiscono la narrazione e annullano le differenze tra ricchi e poveri. Tutto condito da una sottile ironia che l’autrice dosa con parsimonia, conferendo maggiore autenticità e caratterizzazione ai personaggi.
«La natura della traduzione letteraria è qualcosa che va oltre la trasposizione di parole e che richiede azioni semplicissime e prodigiose al tempo stesso: ascoltare attentamente, con empatia, far spazio dentro di sé per le parole dell’altro e poi sentirle risuonare nella propria lingua e lasciarle scorrere sulla tastiera», dice Barbara Teresi, che traducendo La casa dei notabili ha compiuto quella specie di miracolo di cui parla Calvino.
La traduzione, come afferma Paul Ricoeur, ha qualcosa di etico, comprende e spiega. Teresi entra nel testo, lo modella, lo trasforma, senza intaccare la parola. Ci regala una prosa colta, elegante e popolana, in cui mai si avverte la fatica del tradurre. Tutto è preciso, nulla fuori posto. C’è un tale dinamismo nei dialoghi che fa quasi uno strano effetto pensare all’arabo come lingua originale.
La parola di Barbara Teresi si fonde con quella di Amira Ghenim, in un gioco di estraneità e appartenenza che diventa un abitare la lingua dell’altro e ricevere presso di sé la parola dello straniero, in quelle che Ricoeur definisce sfide e felicità della traduzione.