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EFFETTO STREGA – Intervista a Claudio Piersanti (Quel maledetto Vronskij – Rizzoli)

Claudio Piersanti

A cura di Elena Cataldo e Carlotta Forni

Quando la persona al centro della propria esistenza sparisce, come si affronta la vita da soli?Giovanni non se lo è mai chiesto. Lui e Giulia sono una coppia affiatata, uniti da una complicità di cui quasi vergognarsi. Giovanni, dopo una vita in azienda e il licenziamento, apre una piccola tipografia. Giulia, appassionata di letteratura e piante, cura il loro piccolo giardino come fosse un tempio. Eppure, dopo una dura esperienza con la malattia, lei sparisce e lascia solo un breve e laconico messaggio in cui gli chiede di non cercarla. Solo, in una casa vuota e di colpo ostile, Giovanni fa della tipografia il suo rifugio, fisico e mentale. Sceglie dallo scaffale della moglie un libro, Anna Karenina, e lavora senza sosta a una copia unica e preziosa, da darle quando tornerà, perché tornerà. La corrispondenza tra fantasia e realtà sfuma i propri confini mentre la trama del capolavoro russo si intreccia con la vita e le ossessioni di Giovanni, fino a fargli temere che un «Vronskij qualsiasi» gli abbia sottratto l’amore della vita.

Giovanni sin dall’incipit è insicuro, incredulo della fortuna di poter vivere accanto al suo grande amore. La fuga improvvisa della moglie Giulia lo porta a chiudersi ancora di più in sé stesso. Invece di andarla a cercare decide di aspettarla, considerandosi in parte responsabile del suo abbandono. Ci sembra che il tema della colpa si riverberi nella condotta del protagonista, eppure alla fine la ragione sta dalla sua parte. Pensa che sia necessario un processo di profonda analisi interiore per arrivare alla comprensione degli eventi determinanti della vita che troppo spesso vengono delegati alla responsabilità altrui?

Giovanni è uno sconfitto, sia pure con onore, visto che la sua arte è insuperata. Senza Giulia il licenziamento l’avrebbe segnato di più. Lei è anche la sua forza, come lui è forza per lei. C’è un contenuto poco osservato nell’amore che Giovanni prova per Giulia: l’ammirazione. Non solo perché la trova molto bella. È laureata, parla le lingue, legge libri da sempre. Pensa di non meritarla, è vero. Ma lei non la pensa così, lo ha scelto liberamente e con convinzione. Tutti i loro gesti hanno il fine di non nuocere all’altro. Il risultato è che lui le dona anni di vita bellissima.

La natura ha un ruolo fortemente simbolico nel romanzo e diventa centrale nel rapporto tra Giulia e Giovanni. I fiori e i profumi fanno da contrappunto descrittivo alle vicende dei due protagonisti e costituiscono una storia parallela fatta di elementi sensoriali nella quale i due coniugi si ritrovano. Ci può parlare della sua relazione con la natura?

Come tutti gli abitanti di grandi città ho un rapporto con la natura mediato dai parchi, ed essendo ahimè un nomade non ho mai avuto un vero giardino. Cioè ne ho avuto uno a Bologna, bellissimo, ma tanti anni fa. Ed è apparso in varie forme in tanti miei libri. In quella casa nascevano tante cose: racconti, per esempio, a profusione. E ci è nato anche mio figlio. È forse l’unica casa vera della mia vita. Le altre sono di transito, come i parchi, come la natura che guardo da un treno.

Anche le famiglie apparentemente felici si scontrano con la paura, la morte, l’incomunicabilità, perché a volte è lo stesso amore a generarle. Ci siamo domandate se la scelta di Anna Karenina, oltre che per la figura di Vronskij all’interno del romanzo, sia dipesa anche dalla volontà di aprire una riflessione sul tema di uno degli incipit più famosi della letteratura: “Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”. Ritiene che, rispetto a quanto afferma Tolstoj, la felicità sia molto più sfaccettata, o che in fondo la felicità completa non esiste?

Non volevo fare un romanzo a tema: la famiglia felice. Non mi occupo del matrimonio o di teoria dei rapporti. Per essere sincero le storie d’amore che raccontano gli amici di solito mi danno malinconia o mi annoiano. Racconto un amore senza sottolineature e senza esibizioni, vissuto quasi con vergogna. Forse si sentono fuori dal tempo, inadeguati, ma stanno semplicemente bene così. L’unica coppia che conosco mai stata in crisi è una coppia di anarchici. Di quelli veri. Lo sono da 50 anni e da 50 stanno sempre insieme.

Giovanni è stato licenziato dopo tanti anni, è riuscito a mettere in piedi un’attività che gli dà da vivere, però non si sente realizzato. Giulia, tanto colta e intelligente, si è accontentata di un lavoro che non la appaga. Varie volte nel libro emerge l’insoddisfazione del protagonista per un mondo che non li premia, senza però mostrare alcun tentativo di rivalsa, quasi a voler sottintendere che la pienezza emotiva debba essere un’alternativa alla carriera e al lavoro. Cosa ne pensa?

Se c’è un tema che si ritrova in tutti i miei libri è l’assenza di una Comunità. I miei personaggi appartengono soltanto a sé stessi. Un tema immenso, un cambiamento enorme che sento molto, anche se poco compreso nella sua gravità.

Nel corso della sua carriera ha avuto modo di confrontarsi con diversi tipi di scrittura, quella per il cinema con Carlo Mazzacurati e quella per il graphic novel con Lorenzo Mattotti. Quanto ritiene che siano distanti questi diversi tipi di scritture narrative da quella letteraria? In un’intervista ha dichiarato che la storia del graphic novel Stigmate (Einaudi, 1999) si basa su un suo canovaccio che conservava da tempo senza riuscire a sviluppare in maniera soddisfacente. Crede che la possibilità di portarlo su un diverso piano espressivo abbia permesso alla storia di trovare delle ragioni ulteriori che altrimenti non sarebbero emerse?

Certo, Stigmate era solo un appunto (uno scoppiato che riceve un segno inatteso e indesiderato di santità) e non sarebbe esistito senza Mattotti. Lo abbiamo scritto insieme. Così come scrivevo insieme a Carlo. Non è lo stesso lavoro proprio per questo. Ma se si fanno gli incontri giusti (Carlo e Lorenzo) allora diventa bello lavorare insieme. È quasi un gioco, di quelli che si facevano da piccoli con gli amici: io ERO tizio, tu caio… Quando sono diventato sceneggiatore di professione ho perso interesse per il cinema. Che può diventare noiosissimo. Gli scrittori fanno gli sceneggiatori per un equivoco. Scrivono meglio degli sceneggiatori ma non è quello che serve. La scrittura è nella regia, o nel montaggio, pochissimo nella sceneggiatura. Leggere una sceneggiatura è noioso: è uno strumento di lavoro, non di lettura. Ne ho pubblicate un paio ma senza convinzione.

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