In attesa della terza edizione di Effetto Strega – l’appuntamento annuale in cui la Scuola del libro incontra gli scrittori della dozzina del Premio Strega, e che si svolgerà presso la libreria Giufà il prossimo 5 giugno – gli studenti del master «Il lavoro editoriale» (Marianna Jensen, Marta Vesco, Elena Zuccaccia) hanno intervistato Carlo D’Amicis, Il gioco, Mondadori.
Per quale motivo hai scelto l’escamotage dell’intervista per raccontare la vicenda di Leonardo, Eva e Giorgio? E per quale motivo hai scelto di partire dalla narrazione del bull, Leonardo, e non da quella di Giorgio, vittima e anche artefice del gioco?
La forma dell’intervista probabilmente nasce anche dalla necessità di creare un po’ di distanza non solo tra il lettore e questo mondo ma anche tra me che scrivevo questa storia e questo mondo, che è un mondo con le sue regole, le sue dinamiche, verso il quale avevo una curiosità ma non avevo il pieno controllo della situazione. Quindi è stato quasi naturale assumere il punto di vista del narratore che ha delle curiosità e attraverso delle domande cerca di ricostruire queste psicologie.
Poi forse c’è anche una ragione legata proprio a una scansione del testo: fin dall’inizio ho sentito scrivendo che il libro assumeva le sembianze di un flusso, un racconto che è anche flusso di coscienza, perché poi in realtà è uno scavo nelle psicologie dei tre personaggi più che una narrazione di fatti e di situazioni. Quindi in qualche modo c’era anche la necessità di scandire questo flusso. Dei capitoli mi sarebbero sembrati banali, nello stesso tempo questa mole di parole rischiava di essere debordante, le domande perciò in fondo poi assomigliano a dei punto a capo, a dei capitoli che finiscono e che iniziano, può essere considerato anche un escamotage narrativo da questo punto di vista. C’è quindi anche una funzione più interna al testo, di scansione.
Sulla successione delle tre voci diciamo che il personaggio del cuckold, il personaggio di Giorgio, assomiglia un po’ a un burattinaio: è insieme il medico e l’ammalato, il razionale e il folle, e in un libro pieno di contraddizioni la figura che più assume su di sé le contraddizioni di questo gioco. Quindi mi sembrava giusto farlo arrivare quando la tavola era apparecchiata, perché questa sua caratteristica di forte manipolazione trovasse già formate le figure che lui muove come lo scacchista che muove le sue pedine.
In più questa è una storia che attraversa qualche decennio nella vita di queste persone, si va dalla loro prima infanzia al giorno d’oggi, in cui queste figure sono le prime due ultra cinquantenni, la terza settantenne, quindi il settantenne Giorgio forse era anche la figura migliore per esprimere quel senso di decadenza, di perdita, di smarrimento – che tutto il terzetto in qualche maniera esprime, le prime due figure forse anche di più, però anagraficamente e anche nella sua impotenza, nella sua assenza quasi strutturale di vitalità e di energie il cuckold sembrava la figura giusta per simboleggiarlo e per andare a concludere questa storia.
Una decadenza, anche se poi il finale del libro è anche un finale di ripartenza, la fine di questa illusione, di dare al gioco erotico e alla sessualità un valore anche di emancipazione, di scavo di sé, di conoscenza, tutti progetti che falliscono o comunque mostrano i loro limiti, però poi questi tre personaggi comunque rimangono insieme, scoprendo che ciò che li univa effettivamente non erano tanto i meccanismi di quel gioco ma erano proprio i sentimenti che loro hanno cercato per tutta la loro vita di tenere in disparte.
La maniera di esiliare il sentimento che ha Leonardo è difensiva, e allo stesso tempo quasi progressista, più di una volta lui dice che cerca qualche cosa che sia oltre la convenzione dell’amore e del rapporto, una forma del sentimento ulteriore, per certi versi superiore, perché si rende conto che la relazione di coppia tradizionale, l’amore che si sviluppa attraverso le forme più convenzionali alla fine ripropone sempre gli stessi limiti, le stesse difficoltà, il tradimento nel senso più tradizionale del termine. Quindi lui e peraltro tutti gli altri personaggi in fondo cercano di andare oltre delle regole affettive ed emotive, da un certo punto di vista scansando tutto ciò che è sentimento, affetto, amore, dall’altra parte alla fine ritrovandosi uniti proprio attraverso questi sentimenti.
Qual è, se c’è, la relazione tra le esperienze traumatiche dell’infanzia dei protagonisti e i ruoli ricoperti nel gioco o la partecipazione stessa al gioco in maniera così totalizzante?
Questo è uno degli elementi che ho messo più a fuoco scrivendo il libro.
Freud l’ha detto più di un secolo fa, in qualche modo il sesso ci riguarda molto più del sesso: la nostra infanzia, i rapporti con i nostri genitori, l’idea che abbiamo di noi crescendo, la scoperta del nostro corpo, del corpo degli altri, sono tutti elementi dell’eros che non si limitano alla sfera dell’eros e che diventano la nostra forma e la nostra personalità. Le nostre pulsioni parlano di noi ben oltre la forma che queste pulsioni assumono.
Il legame tra l’infanzia e la sessualità adulta è strettissimo secondo me.
Il primo personaggio, Leonardo, ha caratteristiche che farebbero gola a uno psicanalista: innamorarsi sempre di donne già impegnate ecc. Lui stesso riesce a razionalizzare questa sua inclinazione pensandola come il suo modo per sentirsi come gli altri, non troppo escluso dal grande circo dell’amore, però anche trovando così una buona ragione per non farne parte. C’è questo suo sentirsi non sa nemmeno lui se sopra o sotto gli altri, ma comunque c’è sempre l’elemento della distinzione. Lo dice anche quando incontra Giacomo, il suo amico – vado a memoria, dicono: “Non sapevamo se ci sentivamo meglio o peggio degli altri, avanti o indietro rispetto ai tempi, ma alla fine questo conta poco, quello che conta è essere qualche cosa di diverso”.
C’è questa ossessione di non omologarsi, di uscire dal discorso principale, trovare nuove forme per il proprio erotismo ma in generale per la propria esistenza.
Tutto quello che loro desiderano ha a che fare con la loro formazione e la loro personalità.
Mi viene in mente anche Eva, il personaggio della sweet, che in fondo deve il suo esibizionismo a una cosa assolutamente accidentale come quella di essere la figlia di una donna che entra in un programma di protezione, per cui tutta la loro vita, che è una vita clandestina e sotto falso nome, viene tutelata e vigilata da persone che salvaguardano la loro sicurezza e integrità. La madre a un certo punto dice alla bambina “Intorno a noi ci sono sempre e comunque degli uomini che ci guardano”, e questa cosa che non ha nulla a che fare con la sessualità si innesta nella sessualità di questa bambina e poi ragazza e diventa una forma mentale: lei sa che in qualunque situazione ci sono questi uomini che la guardano e da questo matura un’idea di palcoscenico, idea che poi spende con un desiderio narcisistico, esibizionistico.
A questo personaggio succede così, ma a ognuno, secondo me, succede qualche cosa che ci rende nei nostri rapporti sentimentali, erotici, interpersonali, delle persone più o meno coraggiose, paurose, prudenti, aggressive, sottomesse – il libro è molto legato all’idea di potere e sottomissione, è un bivio abbastanza chiaro nel gioco erotico e anche nei rapporti sentimentali, e io credo che abbia qualche cosa a che fare con la maniera in cui siamo cresciuti, in cui abbiamo imparato a conoscere il mondo, gli altri.
Il libro vuole testimoniare proprio questo, che questa cosa che noi chiamiamo sessualità, e che nella vita delle persone è legittimamente molto intima e nascosta, è in realtà innervata dalla vita reale e in qualche modo dipende da essa, così come la vita reale spesso dipende anche dalle nostre pulsioni erotiche.
Il tentativo era quello di umanizzare il più possibile una sfera che viene considerata un mondo a parte, perché è giusto che ciascuno di noi lo coltivi anche a parte da sé, anche tenendolo un po’ nascosto rispetto alla propria razionalità.
Il desiderio è una cosa legata alle possibilità. Ci abituiamo anche senza volerlo, in tutti i campi, a desiderare quello che sappiamo di poter desiderare, altrimenti interviene il meccanismo in psicanalisi conosciuto come rimozione: se l’oggetto del desiderio è inarrivabile o contiene una sanzione troppo elevata dal punto di vista sociale e morale, allora lo stacco da me, lo rimuovo.
Quanto Leonardo è l’amante di Giorgio ancora prima che di Eva?
Questo è un aspetto sul quale l’intervistatore cerca di capire un po’ meglio.
Sicuramente non è una storia di omosessualità in senso tradizionale, perché poi il bull è un personaggio virile che deve legittimare il suo ruolo di maschio alfa, però nello stesso tempo c’è qualcosa di simile a una latenza, a una complicità di genere, che ha a che fare con una cultura e una mentalità maschilista, soprattutto dal punto di vista del cuckold è evidente che c’è una formazione maschilista nella quale la donna è di volta in volta la bambina, la prostituta, in ogni caso va sempre protetta, tenuta sotto controllo, gestita.
Una cosa secondo me molto interessante è la gestione della libertà che Giorgio attua nei confronti di Eva. Le concede la libertà, la rende libera, ma a pensarci la libertà dell’individuo dovrebbe appartenere all’individuo stesso, quindi questo atto di presunta generosità forse lo dobbiamo vedere come un gesto di grande arroganza, l’arroganza del mondo maschile che anche uscendo da questo libro nella nostra cultura ha sempre pensato alla donna come a uno strumento.
Per questi due personaggi, soprattutto per Giorgio, la donna assomiglia a uno strumento per poter comunicare con un’altra forma di mascolinità. È un gioco tra maschi in cui la donna viene un po’ usata.
Io cerco sempre di escludere il giudizio dal romanzo, cerco di essere compassionevole nel senso più alto del termine verso questi personaggi perché mi interessa che siano rispettati in quanto persone, però se fossi un lettore di questo libro mi soffermerei a pensare a come Giorgio gestisce sua moglie, dicendo di lasciarla libera però in qualche maniera costringendola al suo piacere. Penso sia anche interessante come lei risponde a tutto questo, con un misto di sottomissione e di emancipazione: attraverso l’accettare queste regole lei si compra uno spazio di libertà, forse sapendo che se si ribellasse non avrebbe lei stessa per sé la capacità di gestire la sua libertà, allora preferisce gestire quella parte di libertà che le lascia il marito, tenendosene una quota, una quota che non condivide per lui e che è il suo piccolo tesoro. Questa credo sia una cosa che succede a molte donne – soprattutto nella generazione di cui i personaggi fanno parte – che si sono sacrificate al proprio uomo ma hanno cercato di mantenere uno spazio di indipendenza ancora prima mentale che pratica, un proprio mondo interiore, un proprio cono d’ombra. Eva è questo tipo di donna, ma anche qualche cosa di più, ha una sensibilità che la rende per me un personaggio speciale.
Quella tra Leonardo e Giorgio è comunque forse una forma non codificata di omosessualità latente, è il sublimarsi in un’immagine virile alla quale si sa di non riuscire ad accedere o che si pensa sia troppo faticosa da coltivare. Dimensione in cui lascio a te il ruolo di maschio alfa però mi tengo il ruolo del regista, del manipolatore, quindi sono io che ti dico quando puoi esprimere quella tua virilità, per cui in qualche modo mi proietto: nel non essere te ma nel controllarti io comunque sono anche te, credo succeda qualcosa del genere.
Che rapporto hai avuto con il tuo editor per quest’ultimo libro – Il gioco, uscito per Mondadori – e in cosa è stato diverso, se lo è stato, rispetto al rapporto con gli editor dei tuoi scritti precedenti (usciti per case editrici come minimum fax, Transeuropa, Pequod)?
Più che un cambiamento ho sentito un grande privilegio di poter lavorare per i quattro libri che ho fatto con minimum fax con uno scrittore che stimo tantissimo, dal punto di vista della scrittura ma anche dal punto di vista umano, e che è Nicola Lagioia.
Nel passaggio da minimum fax a Mondadori uno degli elementi più sofferti è stato proprio il separarmi da lui. Credo che sia stato determinante anche il fatto che lui, per l’incarico che ha avuto al Salone del Libro di Torino, ha di fatto lasciato il ruolo di editor della narrativa italiana di minimum fax – ora ufficialmente, ma nel momento in cui io stavo scrivendo questo libro era in una specie di limbo in cui non sapeva ancora se l’incarico di Torino sarebbe continuato o meno, e ufficialmente aveva ancora il ruolo ma non aveva di fatto più tempo di seguire i libri. Poi a minimum fax è arrivato uno scrittore comunque bravissimo, Fabio Stassi, che sta prendendo in mano la situazione, però in quel momento il fatto che Nicola stesse andando via è stato uno degli elementi sui quali ho riflettuto e se lui fosse stato ancora lì il passaggio da minimum fax a Mondadori sarebbe stato forse ancora più ripensato di quanto non sia già stato.
A Mondadori ho lavorato in realtà con due, perfino tre, editor.
C’è un editor della narrativa italiana, il responsabile della collana, che è Carlo Carabba – che è anche uno dei candidati allo Strega – e che ha letto le prime cinquanta pagine di questo libro e ha deciso di prenderlo e di lavorarci su, e con lui ho fatto la prima chiacchierata su come impostare il libro, su come proseguirlo. Poi però mi ha seguito un secondo editor, Marilena Rossi, che a un certo punto è andata in maternità e mi ha lasciato nelle mani di un terzo editor, Mario De Laurentis.
Tre persone in gambissima, ma già questo ci fa capire come Mondadori sia una macchina molto più industriale di minimum fax dove invece la dimensione artigianale è molto più marcata, se non altro perché loro fanno sei libri di narrativa italiana in un anno, quindi c’è tempo di maturarli, di seguirli oltre che di promuoverli con un’altra tempistica.
Da questo punto di vista io in questo momento sono enormemente gratificato da Mondadori, perché uno dei rischi che ci sono nel passare a una casa editrice come questa è quello di finire in questo ciclo a getto continuo, nel quale se non imbocchi subito la strada giusta rischi di essere superato dall’uscita dopo e dall’uscita ancora dopo, quindi il fatto che loro abbiano scelto questo libro e deciso di sostenerlo per lo Strega mi ha tolto da questa preoccupazione. C’è infatti una mobilitazione della casa editrice molto forte e protratta nel tempo: il libro è uscito a fine marzo, anche se non entreremo in cinquina loro per due mesi e mezzo ci hanno lavorato e ci stanno lavorando a tamburo battente, tenendolo il più possibile vivo. Questa per me è già stata, ancora prima che cominciasse la gara, una prima vittoria, forse la vera vittoria. Mondadori ha un catalogo enorme, sforna tanti libri di narrativa italiana in un anno, quindi che abbiano scelto un libro peraltro un po’ particolare e non proprio adattissimo al target standard dello Strega, che è un premio di tradizione, ci sono tanti giurati che sono avanti con gli anni, che hanno una visione della letteratura più tradizionale, non è il premio anticonformista per eccellenza, portarlo lì è stato coraggioso.
Altra questione che ci interessa è quella del linguaggio. Nella narrazione usi termini provenienti perlopiù dal mondo anglofono, come se l’italiano avesse dei limiti intrinseci, come se non avesse termini e modi per affrontare una questione che riguarda l’essere umano e le sue dinamiche relazionali da sempre. È così?
Come tutti i microcosmi, i territori che hanno regole, confini, strutture molto definite, anche questo è un mondo che ha il suo gergo, il suo linguaggio, non so per quale motivo è anglofono, forse perché è un gioco internazionale, non lo so. Poi, anche se può sembrare comico dirlo, c’è un tecnicismo nel gioco, nella sessualità, e questo ci dice molto del rapporto tra la libertà e le regole. Questi personaggi sono – si diceva una volta – dei libertini, però è stato molto interessante, forse anzi è stato il motore principale che mi ha spinto a incuriosirmi di questo mondo, rendersi conto che questa ricerca, questa pulsione di libertà, un attimo dopo subito si strutturava in una serie di codici, di regole comportamentali, linguistiche, come se il disordine non sia gestibile ma sia in realtà un’ambizione per rompere con un altro tipo di ordine, che ci schiaccia, ci costringe, però nel momento in cui noi ci lasciamo alle spalle quell’ordine, lasciando spazio a pulsioni e desideri, costruiamo subito un sistema di regole nuovo. Anzi più la materia è poco controllabile e trasgressiva e più ha le sue codificazioni, i suoi precisi meccanismi, i suoi precisi codici, i suoi contratti addirittura.
Una volta parlando di desiderio si diceva “la legge del desiderio”, come fosse qualcosa che tutto sommato ci precede; abbiamo le nostre pulsioni, ci possiamo interrogare su come si sono formate, però in qualche maniera impongono la loro legge su di noi. Invece raccontare questa storia mi ha fatto capire che, forse proprio nella società e non solo in quest’ambito, siamo passati dal principio della legge – in cui le cose decidono per noi e ci precedono – a una dinamica più contrattuale, in cui questo è il mio desiderio ma vediamo come lo posso incastrare col tuo, come possiamo dai nostri desideri coinvolgere un terzo, come possiamo costruirci una nostra rete. È anche un po’ una mortificazione del desiderio. Mi viene anche da dire che questi personaggi in realtà non desiderano molto. Desiderano tanto di desiderare, sono alla ricerca di una maniera di coltivare il proprio desiderio, hanno perso la naturalità del desiderio. Sono alla ricerca del bandolo di una matassa dentro un gioco di specchi, come se il loro desiderio si rifrangesse su dieci, venti, trenta specchi e non sapessero più da dove nasce, dove sgorga veramente e avessero bisogno di codificarlo mettendo insieme tutti questi pezzi.
Il desiderio imbrigliato in un contratto: Eva e Leonardo arrivano a fingere un amplesso per obbedire alla norma e per trasgredirla vanno al cinema, fanno qualcosa di “normale”.
C’è un tentativo di trovare col passare degli anni, col perdere energia e autenticità del desiderio, una maniera loro di essere, anche con la consapevolezza di essersi spinti lungo una strada dalla quale è difficile tornare indietro, diventare persone “normali”.
Interessante anche il rapporto normalità-anormalità. Quando all’Infinito arrivano le assistenti sociali e portano una visione normale delle cose loro sono quasi sorpresi, perché in quell’ambito hanno valore regole diverse, che loro quasi non riescono a comprendere, quasi non riescono a mettere a fuoco quello che gli stanno dicendo.
Una cosa che mi ha conquistato nel mettere insieme il tutto è questa compresenza di colpa e di innocenza. Come giudicare questi due personaggi? Da una parte dei pazzi colpevoli che fanno crescere un bambino al piano di sopra di un posto in cui ci sono giochi sadomaso ecc, dall’altra parte tutto questo lo innestano in un’idea di purezza e di innocenza.
Quest’idea di innocenza e di colpa secondo me dovrebbe essere il solco nel quale si dovrebbe sempre incanalare la letteratura. Al di fuori dei codici morali, perché spesso la morale tende a separare il bianco e il nero, il buono e il cattivo, ma le persone non sono così, le persone sono un insieme di cose più complesse. La prima cosa che dice un detenuto in carcere è: io sono qui per una colpa che pure riconosco, ma la cosa che non posso sostenere è l’identificazione totale tra un me sociale e quello che ho fatto, perché io so che quello che ho fatto è solo una parte di me.