Alice Butera e Andrea Sirna, allievi dell’undicesima edizione del master “Il lavoro editoriale”, hanno intervistato Eleonora Marangoni, candidata al Premio Strega 2019 con il libro Lux (Neri Pozza). Eleonora Marangoni è stata ospite della Scuola del libro, insieme agli altri 11 candidati, in occasione della serata Effetto Strega, che si è svolta l’11 giugno 2019 presso WEGIL.
Lux è un romanzo scritto con una lingua ricca, densa, fatto di una scrittura che lavora sottovoce. Nel delineare personaggi, emozioni e temi nulla viene mai esplicitato direttamente, come se la realtà fosse visibile dietro la tua luce. Come si calibra una lingua silente ma che al tempo stesso dice così tanto?
Come spesso mi capita di raccontare, quando parlo di come è nato questo libro, ho scritto le prime righe di Lux di getto, senza pensare troppo a quello che stavo facendo o dove quella prima pagina mi avrebbe portato. In seguito dopo aver finito la prima stesura del romanzo, mi ci è voluto diverso tempo per sentire che nel suo insieme tutto suonava come quell’inizio lì, o perlomeno come io volevo che suonasse. Ci ho lavorato molto, a ritmi alterni ma per un lungo tempo. Miles Davis diceva «sometimes it takes you a long time to sound like yourself», e credo che spesso per i primi romanzi vada proprio così. Si cerca la voce, un po’ è lei che ci guida e un po’ siamo noi a cercare lei.
Senza dubbio in questa ricerca mi ha aiutato moltissimo scrivere tutta la prima stesura a mano. È un gesto lento, per certi versi oggi può apparire inutile, ma a me ha insegnato ad andare dietro alle parole che sceglievo, e al ritmo che quella storia scandiva nella mia testa. A non affrettarmi per arrivare in fondo, e anche a buttare: passando il testo dal quaderno al computer ho limato e scartato moltissime cose, pagine e scene intere: lavorare così ha allungato i tempi, certo, ma in certo senso mi ha regalato una serenità, quella di sapere che “l’impasto” da cui la storia proveniva era giusto. Trattandosi di un romanzo che punta più a raccontare l’invisibile che la realtà manifesta, e che predilige i dettagli agli eventi, l’introspezione ai colpi di scena, mi sembrava il modo di procedere. Anzi, più che un modo direi che è stato un istinto.
Tutta la vicenda è immersa in una realtà fatta di dentro e fuori, di un’alternanza continua fisico-metaforica, tra gli ambienti chiusi dell’Hotel Zelda e l’apertura della tua isola. Nel trovare la giusta direzione sembra esserci la ricerca di un continuo equilibrio tra entità agli opposti, tra punti cardinali. Perché quando questi opposti entrano in contatto hai deciso di far subentrare una sorta di elemento magico?
Perché è quello che succede nella vita! Non i miracoli, a quelli non credo, ma alle epifanie e ai piccoli segni sì. La nuvola nel salotto dello Zelda è volutamente esagerata, e totalmente irragionevole (in qualche modo, anche un certo sud lo è, ed è quella una delle cose ai miei occhi lo rende irresistibile), ma a volte nella vita capita di trovarci di fronte a cose che apparentemente non ci riguardano, apparentemente assurde e lontane da noi, e che invece in qualche modo non solo ci parlano, ma ci obbligano a cambiare punto di vista sulle cose. Se si smette di credere a quello, ovvero alla possibilità che alcuni fenomeni o incontri ci deviino dal solco in cui siamo e dal percorso che anche se non riconosciamo come nostro ormai ci sembra il nostro destino si smette di vivere, o quantomeno di vivere nel modo giusto. Lux è la storia di un gruppo di sconosciuti piuttosto mediocri e infelici che si incontrano: nessuno viene “stravolto” nel profondo dai giorni passati sull’isola, ma torna a casa un po’ diverso, come se fosse stato costretto a uscire per un attimo da sé e a guardarsi da fuori: a volte non serve altro, e anzi la “magia” è proprio quella.
Dal passato della famiglia di Thomas, il tuo protagonista, al presente fatto di incertezze, legato al suo vecchio amore, viene fatto un collegamento tramite gli oggetti che attraversano il tempo e ci circondano nei vari momenti della nostra vita. Dopo Lux, in che modo è cambiato il tuo sguardo e l’attaccamento ai tuoi oggetti?
In nessun modo. Ho scritto Lux proprio per parlare del “mondo delle cose”, perché il mondo delle cose mi parla da sempre, e penso proprio che continuerà a farlo. Spesso si scrivono libri per sciogliere dei nodi della propria vita e lasciarseli alle spalle. Per me non c’è stato nulla di tutto questo: Lux non è autofiction, non è un romanzo-denuncia, non nasce da “un’urgenza”. L’ho iniziato e finito piuttosto per condividere una certa di visione del mondo, e celebrare apparenti “dettagli” della vita che da sempre per me non sono affatto dettagli, ma al contrario aspetti importanti e distintivi – credo – di una personalità e di un certo modo di stare al mondo. In un certo senso avrei potuto scriverlo a 16 anni o a 90: sarebbe di sicuro stato un altro libro, ma “il posto” da cui proveniva sarebbe stato lo stesso.
Il tuo manoscritto selezionato nel 2017 dalla giuria del Premio Neri Pozza ti ha permesso di esordire e continuare la felice tradizione di scrittori italiani provenienti dal vivaio dell’editore milanese. Dal quel momento alla pubblicazione, quanto è stato incisivo il lavoro con il tuo editor e quanto (e se) è cambiata la forma del romanzo?
Ho finito la seconda stesura di Lux il giorno stesso in cui l’ho spedito per il concorso (l’ultimo giorno utile, neanche a dirlo). Tra il testo del premio e quello della pubblicazione ci sono state altre due stesure: il libro ha vinto il premio Neri Pozza nel settembre 2017, ed è uscito a novembre 2018. Il lavoro con Giuseppe Russo, il direttore editoriale di Neri Pozza, che dei romanzi vincitori del premio cura anche l’editing, è stato lungo e in alcuni passaggi piuttosto combattuto. Sicuramente il confronto tra la prima e l’ultima versione mostra cambiamenti importanti, ma l’anima alla base del testo è rimasta la stessa.