Beatrice La Tella e Chiara Orfini, allieve dell’undicesima edizione del master «Il lavoro editoriale», hanno intervistato Nadia Terranova, finalista al Premio Strega 2019 con il libro Addio fantasmi (Einaudi). Nadia Terranova è stata ospite della Scuola del libro, insieme agli altri 11 candidati, in occasione della serata Effetto Strega, che si è svolta l’11 giugno 2019 presso WE GIL.
Nel tuo romanzo ci hanno colpito molto la profonda simmetria e l’attenzione riservata ai simboli: il ruolo dell’acqua, la forte specularità degli elementi in campo, l’orario che sembra non riuscire ad avanzare, per citarne solo alcuni. Il romanzo si caratterizza per la precisione chirurgica della struttura che non ne intacca il cuore intimo e spontaneo: come sei riuscita a tenere insieme questi differenti livelli?
È la prima volta che qualcuno utilizza la parola simmetria per raccontare il lavoro che ho fatto con gli oggetti e con alcune parole. L’acqua è, certo, un elemento fortemente simbolico ma io per arrivare al simbolico sono passata anzitutto dal concreto: sentivo che l’acqua rimandava a qualcos’altro, che attraverso l’acqua parlavo della figura del padre. Avvertivo anche che l’acqua raccontava una minaccia, la minaccia del mondo esterno che entra nella casa, ma anche la possibilità di una pace. Quando Ida spera che il padre sia tornato all’acqua c’è in lei un desiderio non di lieto fine, perché è pur sempre un suicidio quello che sta immaginando, ma di un finale di pacificazione che ponesse fine a una vita tormentata. Ho cercato di essere simmetrica, con l’acqua, con gli orari, con gli oggetti: io sentivo che in questo romanzo ciò che deponevo da una parte era anche qualcosa che potevo riprendere. L’ho sentito con la sveglia, l’ho sentito con la scatola rossa che ho cercato di trattare come un oggetto magico quindi come un oggetto che riappariva più volte e l’ho sentito appunto con l’acqua che ho cercato di esplorare in tutte le direzioni possibili. Mi chiedete come ho fatto e la verità è che non lo so. La verità è che quando scrivo cerco sempre di alternare pagine in cui mi sembra di toccare il cuore infuocato delle scene che voglio raccontare, il cuore rovente dei sentimenti che voglio fare esplodere sulla pagina e mi sembra che governarli sia l’unico modo per restituirne l’aspetto incendiario. Non credo “negli sfoghi”, o meglio non credo che gli sfoghi siano letteratura, Certo, credo negli sfoghi fuori dalla pagina scritta, che sia giusto e importante sfogarsi telefonando a un amico o anche piangendo in mezzo alla strada, ma tutto questo non costituisce di per sé letteratura. Se io voglio provocare un effetto emotivo nel lettore, e quindi lo voglio provocare anche in me, ho bisogno di passare attraverso una struttura formale, perciò non so dire esattamente come ho fatto, so che questo è il doppio sguardo che cerco di tenere. Io faccio a volte l’esempio della pasta al pomodoro (ride): è la cosa più buona che esiste, la più semplice, almeno in apparenza, ma in realtà c’è una grandissima cura dietro la formula perfetta. Significa scegliere la qualità di pasta giusta, il marchio raffinato ma non troppo, il pomodoro realmente fresco ma cucinato e preparato in modo che continui a sembrarlo nonostante sia passato dalla padella e che le cose si combinino perfettamente. Ecco, la pasta al pomodoro è la cosa più semplice che esiste ma dietro ci dev’essere grandissima attenzione e grandissimo lavoro e non deve mai diventare elaborazione o sovrapposizione. Serve a restituire un sapore semplice dopo essere passati per un procedimento complesso e credo che questa sia la modalità dentro cui io mi trovo a mio agio a scrivere. Sapete, quando si dice “il romanzo scorre”: il romanzo scorre perché dietro c’è un lavoro meticoloso sulle singole righe e sulla singola pagina.
Nel corso di Effetto Strega abbiamo parlato del tuo legame al patrimonio mitologico greco-siculo. Spostandoci sulla letteratura più recente, qual è stato il tuo “pantheon” di riferimento mentre davi forma ad Addio fantasmi?
Vorrei parlare di scrittori viventi e vorrei parlare di scrittori italiani i cui libri che mi hanno segnato mentre a mia volta scrivevo, e lo voglio fare anche perché di solito si ha il vezzo di citare degli scrittori italiani morti oppure dei grandi numi tutelari. Invece vorrei raccontare di due libri che mi hanno colpito molto durante la stesura del mio: uno è Le stanze dell’addio di Yari Selvetella, l’altro è L’estate del ʼ78 di Roberto Alajmo. Sono due libri sugli addii e sulle assenze che hanno certamente influenzato il mio lavoro in corso d’opera, due libri che ho incontrato mentre mi occupavo di storie simili e che quindi mi hanno colpito. E poi c’è L’anno del pensiero magico di Joan Didion da cui non posso prescindere, sui medesimi temi. Inoltre, sempre durante la stesura, ho letto Memoria di ragazza di Annie Ernaux, autrice che amavo molto già da prima. Quel libro mi ha completamente stravolto. L’idea di leggere di un personaggio femminile, di una scrittrice che raccontava “la se stessa di gioventù” mettendosi davanti a una fotografia, creando quell’effetto di straniamento temporale che mi interessava tantissimo per Addio fantasmi, e poi il fatto che si raccontasse attraverso la memoria, facendo anche un discorso sulla memoria stessa mentre mandava in scena i ricordi… Tutto questo non poteva non avere a che fare con quello che stavo scrivendo.
Nel romanzo è molto presente Ida bambina, con il suo corpo, le sue immagini, le sue emozioni. Nella caratterizzazione del personaggio ha influito il tuo percorso di scrittrice per l’infanzia?
Credo che tutto quello che leggo e che scrivo si influenzi continuamente. Senz’altro quando scrivo per ragazzi non penso di fare qualcosa di diverso da ciò su cui lavoro di solito. So che l’età dei miei protagonisti sarà tendenzialmente più bassa e che il libro finirà in mani “piccoline” piuttosto che in mani corpulente, però anche questo non è detto. Quindi diciamo che forse è il contrario, forse sono io a sentire sempre il bisogno di mettere un “io bambino” nei miei libri. A volte la storia prende la forma della scrittura per adulti, a volte di quella per ragazzi, ciò che so è che non c’è neanche un mio libro dentro il quale non ci sia un bambino. A volte magari è semplicemente il destinatario: penso alle fiabe delle Mille e una notte che ho riscritto per La Nuova Frontiera: sono tutte o quasi tutte “fiabe adulte” che danno vita ad uno strano riflesso perché lì racconto vicende di uomini adulti ai bambini, mentre in Addio fantasmi racconto di una bambina a degli adulti.
La differenza immediata rispetto al tuo primo romanzo è la scelta della prima persona come voce narrante, lì riservata soltanto all’epilogo. Anche Gli anni al contrario raccontava una vicenda familiare, sebbene maggiormente influenzata dal contesto storico-politico, eppure è solo a Ida in Addio fantasmi che hai deciso di affidare in maniera diretta e completa la possibilità di dire “io”: perché hai preferito questa forma narrativa? La scrittura si è rivelata più naturale o più complessa?
Gli anni al contrario terminava con una pagina, una sola, in prima persona. Si trattava, appunto, dell’epilogo in cui si capiva che quella terza persona, così apparentemente distaccata, era in realtà uno dei protagonisti del libro, la bambina ormai adulta che raccontava la storia registrata dai suoi occhi. Forse sono partita, in qualche modo, proprio da lì: una delle frasi dell’epilogo de Gli anni al contrario era «I miei occhi sono la mia valigia» e guarda caso sulla copertina di Addio fantasmi c’è finita una ragazza seduta sopra una valigia, come se quella storia le servisse per accomodarcisi sopra e cominciare a raccontare chi era diventata. Dico questo, naturalmente, solo da un punto di vista emotivo e di scrittura: non c’è nessun legame a livello di trama tra le due storie, anche se, in effetti, si possono rintracciare dettagli che un po’ mi sono scappati e un po’ ero consapevole di utilizzare in entrambi i libri. In tutte e due i romanzi infatti le bambine protagoniste pattinano e utilizzano una penna verde, ed è chiaro che questi particolari io li ho saccheggiati dal mio vissuto e regalati ad entrambe le protagoniste.
È stato diverso, scrivere. Ne Gli anni al contrario sentivo il desiderio di raccontare semplicemente i fatti e lasciare al lettore la possibilità di riempirli con le sue emozioni e interpretazioni. Era come se dicessi: «Ecco, vi racconto una storia che probabilmente mi è capitata ma è come se non fosse successa a me». Mentre in Addio fantasmi il movimento è stato contrario: ho cercato di raccontare una storia esile, di episodi che in fondo non mi sono accaduti personalmente ma consegnando tutto un modo emotivo che invece era il mio. Si trattava di trascinare chi leggeva dentro un cervello, una lingua ossessiva e, dal mio punto di vista, molto avvolgente, da cui era quasi impossibile venir fuori. Persino io esco dal mondo di Ida soltanto attraverso le voci degli altri.
Il master che frequentiamo alla Scuola del libro ci porta a scoprire i molteplici aspetti dell’editing e in generale del lavoro sul testo. Come descriveresti il momento di scambio tra lo scrittore e chi si occupa di curarne l’opera? E come si è strutturato il tuo rapporto con l’editor lavorando ad Addio fantasmi?
Il lavoro dell’editor è uno dei più difficili in assoluto perché un editor è una persona che deve sapere tutto della letteratura ma deve sapere, in realtà, tutto del mondo, deve essere curioso di ogni aspetto che lo scrittore trascina dentro il suo romanzo. Immagino che, lavorando con molti romanzi, un editor viva una sorta di poli-amore che lo conduce ogni volta a innamorarsi di una scrittura diversa, di un cervello diverso, di una psiche diversa. Un bravo editor è una persona che sa entrare nella tua lingua, la tua vita, il tuo immaginario, attenendosi a ciò che tu porti e che metti sulla pagina ma “sospettando” anche tutto ciò che c’è intorno, tutto quello che ti porta a scrivere di un argomento piuttosto che di un altro. Non si tratta soltanto di avere tecnica ma soprattutto una straordinaria sensibilità, che definirei quasi “sismografica”.
Il rapporto con la mia editor, Rosella Postorino, è molto importante. È stata fondamentale in questi due libri, perché ponendomi molte domande mi spinge ad interrogarmi sulle scelte fatte, che io poi potrò rimettere in discussione o confermare. Si tratta di un editing che mi obbliga a dare un significato a decisioni che ho preso istintivamente durante la scrittura. Così facendo, Rosella mi costringe a ripensarle, riuscendo a farmi sentire in maniera più strutturata e profonda dentro al mio stesso romanzo.