Intervista al libraio Raimondo Di Maio
A cura di Carmen Alfano
“Ero uno scugnizzo quando, girovagando per queste vie, mi persi nella zona degli Orefici. Attraversai la strada e arrivai in via Mezzocannone, che era già un brulicare di studenti che parlavano tutte le lingue, di tutti i paesi. Allora però non sapevo che avrei finito la mia vita qui. Forse questa strada era nel mio destino”.
Immaginatevi un bambino, di quelli che corrono dietro un pallone fregandosene di ciò che gli sta intorno e che, senza accorgersene, si trova in una strada in salita che profuma di carta stampata e caffè. Alza la testa perché sente pronunciare parole in lingue che sembrano sempre diverse e si lascia trasportare da quel flusso che dalla sede dell’università, l’imponente edificio coi leoni, insieme maestoso e invitante, si riversa per le vie. “Allora in questa strada le librerie erano almeno trenta, mentre oggi ne restano tre o quattro”.
Quel bambino non sapeva che la sua vita si sarebbe radicata lì, tra le mura di una e poi due, infine tre librerie, tutte collocate in via Mezzocannone che trattiene culture differenti e pagine di libri. “Io qui dentro faccio tutto, dal putzfrau all’editore. Oggi è più difficile sopravvivere, ma chi ama i libri lo sa che ci si arricchisce in un altro modo, non con i soldi”.
Quel bambino si chiamava Raimondo Di Maio, e fa il libraio dal 1984. La sua libreria, che porta i nomi di due numi della letteratura e della filosofia “Dante & Descartes” si è solo spostata di qualche numero civico – oggi 63 – senza mai lasciare quella strada, conosciuta e percorsa quotidianamente da tutti gli studenti e le studentesse di materie umanistiche, a due passi dal cuore del centro storico: Spaccanapoli e Piazza San Domenico. La libreria di Raimondo resiste tra tipografie e locali aperti quasi solo di sera, che fronteggiano molto meglio gli affitti sempre più cari. Il locale è riuscito a prenderlo per un colpo di fortuna. “Ho fatto io i lavori, avendo un passato da imbianchino, e quindi qui dentro anche i muri dipendono un po’ da me, nel bene e nel male”.
In vetrina accanto a volumi antichi, a Domenico Rea e Matilde Serao troviamo l’immancabile Erri De Luca, e poi Viola Ardone e Alessio Forgione, oltre alle edizioni di Aldo Masullo e Walter Benjamin pubblicati da Libreria Dante&Descartes. Un espositore di libri vissuti precede la soglia e spulciando non è raro trovare piccole gemme a pochi euro.
“Sono un libraio atipico forse, ma in vetrina metto i libri che leggo, che provengono da una consapevolezza vera; la letteratura, la narrativa ma anche i saggi, così quando qualcuno me lo chiede so di cosa parlo. Lo stesso vale per i libri antichi, alcuni li regalo perché comprando intere biblioteche casalinghe a volte capita qualcosa che non mi appartiene. Tratto tutti i tipi di libri, manoscritti, quando capita, libri antichi, moderni e fuori catalogo”. Contro ogni etichetta, Raimondo è studioso e appassionato anche di autori considerati minori come Domenico Rea e Carolina Invernizzi.
Varcare la soglia della sua libreria è come attraversare un passaggio segreto dove i libri occupano ogni superfice possibile. La prima stanza è circondata da vetrine illuminate che, come quelle delle antiche gioiellerie, ospitano vecchie e nuove Collane, i libri della Medusa Mondadori, e impilati, i Supercoralli Einaudi. Non mancano però autori contemporanei, tutti passati al vaglio del libraio.
“La disposizione dei miei libri è mentale, e per ‘fondi’. Ho il fondo Matilde Serao, il fondo Domenico Rea, quelli dei maestri della storiografia, della filosofia. Quando dico ‘fondi’ intendo che quell’autore l’ho studiato, me ne sono occupato personalmente, questi libri li ho sia qui che nel deposito al piano di sopra. In questa libreria non si incontra solo un libraio ma anche un maieuta, con le sue poche o grandi competenze, quindi no al self-service, questo luogo di cura ha bisogno di un medico e il medico sono io”.
Quando gli chiedo come sceglie i libri che arrivano nella sua libreria mi risponde:
“Leggo i rotocalchi dell’industria editoriale italiana anche se funzionano un po’ come un Me-too, ma un libraio in genere ha le antenne e sa dove cercare. Ho scoperto per esempio Papyrus di Irene Vallejo, che ho letto e mi è piaciuto tantissimo; quest’anno gli ho dato il mio premio (ogni anno premio un libro) e l’autrice dalla Spagna inaspettatamente mi ha mandato una copia autografata con un suo disegno. Un libro strepitoso di cui la stampa, che spesso parla solo dei bottoni della sua camicia, si è invece accorta”.
Oltrepassando varie pile di libri, la seconda stanza ha l’aria di un cavò segreto; ai piedi del bancone c’è una lavagna con su scritto il libro del giorno consigliato dal libraio. Sulla destra, ad attirare l’attenzione, uno scaffale in miniatura tiene su, tutti ordinati, dei libri minuscoli, giusti nel palmo di una mano. Raimondo li accarezza con lo sguardo, li chiama i suoi “trovatelli”.
“Ho una grande passione per la raccolta di libri di piccolo formato”, mi mostra un libricino conservato con cura nel cellophane, è di Ferdinando Russo. “Questi libri non esistono in nessuna libreria o biblioteca italiana, solo in America finalmente li studiano. Quando ho iniziato a trattare e comprare intere librerie domestiche, mi capitava di trovare buttati come carta straccia, spesso attaccati o incollati, questi libri minuscoli, come degli orfanelli. Allora ho deciso di adottarli e sono diventati i miei trovatelli. Li ho poi catalogati e fatto una mostra e, grazie a questo amore per i libri piccoli, ho deciso di iniziare a farli anch’io. Ho scelto il formato ideale, quello de All’insegna della Baita Van Gogh di Vanni Scheiwiller. Ho chiamato Vanni, mio cliente e amico, e gli ho chiesto il permesso di farli. ‘All’inizio non li venderai ma poi piano piano sì’, mi disse. Lui aveva fatto cose straordinarie e anticonformiste come pubblicare Pound quando era considerato un fascista, Montale e Sbarbaro. Quando ho stampato i primi due, Il Canestro di Rea e Del mangiar napoletano di De Falco, lui arriva qui a Napoli e con la scusa di un convegno viene a vedere i miei trovatelli.
Ci sono Chandra Candiani, Michele Sovente, Giorgio Caproni, Pietro Gobetti, Goffredo Fofi. E poi ce n’è anche uno mio, dove spiego la storia dei piccoli libri. Un giorno viene a Napoli la vedova di Borges che entra e si presenta, bellissima e intelligentissima, e alla fine della chiacchierata decide di darmi un libricino del marito, Il mio primo incontro con Dante, di cui ho finito tutte le copie. Quando ho stampato Tufo di Erri De Luca l’ho portato alla Feltrinelli e in mezza mattinata ne hanno venduti 50. Poi me li hanno ridati perché li rubavano e hanno detto che non li potevano tenere”.
Dietro la cassa c’è una scala che porta al piano superiore, dal quale Raimondo attinge ai libri che non può sistemare di sotto, e nel quale sembra avere di tutto.
Quella che gira intorno alla libreria è una vera e propria comunità di lettori che riconosce in Raimondo e in suo figlio Giancarlo, che ha un’altra libreria a Piazza del Gesù, dei punti di riferimento, anche se andare avanti diventa sempre più difficile: “Stiamo perdendo dei luoghi di cura come le librerie, che pian piano si svuotano a causa delle città diventate dei veri e propri centri commerciali. Le strade e le zone che hanno delle librerie, secondo uno studio dell’Università di Cambridge, hanno un’aria più salubre, che fa meno male alle persone che ci abitano. Un luogo come questo invece, dove ci sono solo negozi vintage, locali per bere e mangiare o dove fare scommesse, penso sia solo dannoso. C’è un problema di organizzazione, ci vorrebbe un piano di urbanistica civile. Bisognerebbe sciogliere questi legami di potere: non vogliamo dei mecenati coi soldi pubblici ma qualcuno che sappia amministrare e gestire la cultura. In questa città non c’è neanche uno spazio per far mettere un pallone a terra ai ragazzi, mentre al circolo del tennis danno altri trent’anni di libero accesso in comodato d’uso”.
Nonostante tutto gli avventori della libreria sono molti, forse perché è evidente che è anche un po’ un luogo di resistenza. Mentre chiacchieriamo entra una scrittrice e poi una scolaresca. I ragazzi e le ragazze sono accompagnati dalla loro giovane docente, ex studentessa napoletana e frequentatrice della libreria. Ha deciso di regalare ai suoi studenti e studentesse un libro per la fine dell’anno scolastico.
“Gli avventori della mia libreria sono traditori fidelizzati che ogni tanto, quando vanno di fretta, comprano su Amazon, ma quando vogliono fare due chiacchiere vengono qua, perché la vera fiducia sta nel ritorno. Per anni avevo la libreria piena di ragazzi che parlavano di tutto, di filosofia, di politica, ora succede un po’ meno, ma per fortuna ogni tanto assisto ancora alla magia dell’incontro tra lettori e librai. I lettori sono in maggioranza lettrici, e io mi auguro un futuro con donne editrici e a capo del mondo. Ma il periodo che stiamo vivendo è atroce, perché questa smania dei consumi ci porta a bruciare i desideri prima ancora di averli conquistati. Credo però che i giovani abbiano capito che la solitudine di questo mondo è un’arma a doppio taglio; anche tra quelli che vengono qui a comprare i libri riscontro questa difficoltà a comunicare. È un problema esplosivo. Lo vediamo tutti i giorni. L’illusione di essere sempre connessi, lo ha detto benissimo Montesano in Come rimanere vivi, è uno svuotamento. Una crisi della presenza, che ci connette a chi è in un tempo diverso e lontano, essere qua e là, una dimensione liquida ma anche molto complicata.”
Gli chiedo se questa crisi è stata accentuata dalla pandemia o se esisteva già prima.
“Abbiamo avuto grossi problemi già prima della pandemia; siamo quelli che resistono ancora, le librerie qui non fanno più affari, a volte i ragazzi comprano direttamente dagli editori, o, male maggiore, fotocopiano i libri. Ci siamo fermati, non ho più personale, ma cerco di andare avanti, reinvestendo quello che guadagno, esclusi i soldi per vivere. Prima del lockdown avevo stampato un libro della scrittrice Louise Gluck, che poi ha vinto il Premio Nobel, ma ne avevo venduto solo settanta copie. Poco prima della chiusura avevamo stampato anche Napoli porosa di Walter Benjamin, una mia invenzione, un figlio, ci ho messo quarant’anni per farlo. L’ho tradotto ed è uscito a cura di Elenio Cicchini. Benjamin ha una complessità linguistica che in alcuni punti può essere compresa solo da uno scugnizzo napoletano. Cicchini inoltre ha recuperato una edizione di Neapel, un testo inedito e non corretto, con delle glosse molto interessanti, tagliate dai nazionalisti. Abbiamo avuto molte richieste anche grazie a una recensione apparsa sul Venerdì. Allora durante il lockdown io e mio figlio abbiamo fatto i contrabbandieri di libri e li abbiamo portati in giro per il centro storico. Non credo fosse vietato, no?”
Gli chiedo se è contento di aver scelto di fare il libraio.
“Venivo dalla agenzia che rappresentava Einaudi, conoscevo a memoria il catalogo. Fallì e licenziarono gli agenti, io ero il più giovane. Recuperai poi il rapporto con Roberto Cerati e Giulio Einaudi. Ormai quella casa editrice è cambiata, ma io no, sono sempre lo stesso. La prima volta che comprai un vestito a Via Roma, entrai in un negozio e trovai un commesso che conosceva la stoffa, il taglio, gli aggiusti. Credo che un libraio debba essere questo, un maieuta, non un commesso qualunque. C’è una crisi dei lavori e dei mestieri. Io ho fatto molti lavori, ma è questo il mio, non saprei fare altro”. E mentre me lo racconta torna lo scugnizzo che si perde a via Mezzocannone, e scommetto che il luccichio che ha negli occhi è esattamente lo stesso di allora.